lunedì 16 luglio 2007

Maura sei tutti noi!!!!

Maura Franchi è il suo nome in codice. In realtà è un extraterrestre molto umano, anche lei, che mi alimenta ad input sociologici.
E' la relatrice della mia tesi di laurea.
Sto collaborando con lei ad un progetto "creativo-alternativo", si si, fuori dai soliti schemi.
Posto un mio articolo scritto per questa creatura che stiamo facendo nascere insieme.

The Omnivore’s Dilemma: you are what you eat

La vita in cima alla catena alimentare è confusa. Ed in cima alla catena alimentare siedono gli onnivori[1]. Per la maggior parte degli animali mangiare è un semplice imperativo biologico: un koala cerca foglie di eucalipto; un topo di campagna preferisce fieno e trifoglio. Ma l’ Homo Sapiens, dotato di cervello pensante e delle invenzioni da lui stesso effettuate (agricoltura, industria ….etc.), ha un stupefacente insieme di scelte, dalle uova fritte ai Chicken McNuggets di Mc Donald’s, da una manciata di fragole fresche ad una barretta sostitutiva del pasto. “Quando puoi mangiare qualsiasi cosa la natura ti offre, decidere cosa potresti mangiare fa venire l’ansia[2]”: è ciò che Michael Pollan, professore di giornalismo alla Berkeley University – California, scrive nell’introduzione del suo nuovo libro “The Omnivore’s Dilemma”.

Quest’ansia è in assoluto, sostiene l’autore, più acuta negli Stati Uniti d’America. Il benessere economico, l’abbondanza e la mancanza di una coerente e cronologica cultura del cibo hanno reso gli Americani “mangiatori” disfunzionali, ossessionati dalla magrezza mentre diventano sempre più obesi, barcollanti da un regime alimentare ad un altro, da un discernimento (la margarina fa meno male del burro) ad un altro (le proteine vanno preferite ai carboidrati). La diagnosi di Pollan è un disordine alimentare nazionale.

La maggior parte di noi è ad una enorme distanza da ciò che mangia. Questo non significa vivere lontano dai luoghi in cui si vende “cibo”, ma vivere lontanamente da ciò che si pensa possa essere la catena produttiva e distributiva degli alimenti di cui ci cibiamo. Preferiamo che il nostro cibo sia naturale, ma non immaginiamo quanto sia difficile che lo sia veramente.

In The Omnivore’s Dilemma, Michael Pollan racconta come viene prodotto, coltivato e distribuito ciò che è il cibo degli Americani (e non solo). Il libro è suddiviso in tre parti: la prima parte tratta delle coltivazioni industriali; la seconda dell’agricoltura biologica, nella veste di grande business e di piccola realtà; la terza dell’agricoltura per se stessi, coltivare ed allevare per il proprio sostentamento. Ciascuna parte del libro termina con la descrizione-racconto di un pasto: un cheeseburger e patatine fritte da Mc Donald’s per terminare la sessione sull’agricoltura intensiva ed industriale; pollo arrosto, verdure e patate al forno, cucinati con gli alimenti prodotti da una grande azienda di prodotti biologici; pollo alla griglia, mais e dolce al cioccolato (fatto con uova fresche di giornata), cucinati con gli alimenti di una piccola azienda famigliare di prodotti biologici. Funghi e maiale allevato senza mangimi chimici, “selvaggiamente”, per concludere la terza parte del libro.

Negli Stati Uniti d’America, ci si alimenta principalmente attraverso due “ingredienti”: cereali e petrolio. Ogni cosa si mangi è stata prodotta grazie a carburanti fossili. Che l’America sia oggi il “granaio dell’umanità”, e lo sia stata per molti anni, è cosa abbastanza nota. Questa capacità degli Stati Uniti di esportare grano e ,soprattutto, mais in tutto il mondo viene spesso vista come un’ulteriore riprova della superiorità del sistema economico americano. E’ vero, si dice, che gli americani consumano una quantità sproporzionata di risorse mondiali rispetto alla loro popolazione, ma è anche vero che con queste risorse producono più di tutti gli altri paesi del mondo e danno anche da mangiare a tutti. La fantastica resa delle coltivazioni di mais è stata ottenuta ad un prezzo; e questo prezzo è stato pagato con una cambiale in combustibili fossili. Adesso, l’assegno sta ritornando per l’incasso e potremmo scoprire che il conto è scoperto. Lo strato di humus fertile era all’inizio del ventesimo secolo circa quattro piedi (circa 120 cm), ma adesso si è ridotto a meno di due piedi (60 cm). In natura, per fare un centimetro di humus fertile ci vogliono circa due secoli. In un secolo, i coltivatori americani hanno distrutto quello che la natura aveva impiegato migliaia di anni a creare. Non solo, mentre l’humus di una volta era una ricca mistura di nutrienti che potevano far crescere qualsiasi pianta, quello che è rimasto è una polvere grigia che non genererebbe niente se non fosse caricata tutti gli anni con quantità crescenti di fertilizzanti artificiali. Fa impressione leggere come tutto questo è avvenuto in pochi decenni. Fino agli anni ’80, l’agricoltura del Midwest era ancora qualcosa che somigliava a quello che noi pensiamo debba essere l’agricoltura: c’erano fattorie, animali, terreni di diversa natura che venivano coltivati in modo diverso. Tutto è sparito da quando il governo Nixon ha deciso che l’agricoltura non doveva essere considerata niente di diverso dagli altri settori dell’economia. Esistevano, fino agli anni '80, in America, meccanismi economici che servivano per evitare la sovra-produzione di mais. Il governo dava un sussidio all'agricoltore in proporzione al mais stoccato nei silos. Con i silos ben pieni, l'agricoltore non aveva incentivi a produrre ulteriore mais e poteva produrre altre cose. Dagli anni '80, il governo decide di pagare agli agricoltori un minimo garantito per ogni bushel[3] di mais messo sul mercato. Quindi, l'incentivo per l'agricoltore è di produrre sempre di più. Inoltre, il minimo viene ridotto tutti gli anni, cosicché gli agricoltori si trovano in una spirale perversa in cui devono produrre sempre di più per guadagnare sempre meno. Questo ha generato la corsa ai fertilizzanti, alle specie “ingegnerizzate”, ai semi prodotti dall'industria chimica, alla distruzione di tutte le attività che non fossero piantare mais. Per un’industria, incentivi a produrre sempre di più possono anche essere una cosa buona, ma ci sono limiti a quello che l'agricoltura può fare. Oggi, la pianta di mais è un’officina dove si trasformano combustibili fossili in proteine e carboidrati. La produzione è dipendente dalla disponibilità di pesticidi e di specie di mais ingegnerizzate; semi che non possono riprodursi in natura, ma che devono essere continuamente forniti dall’industria chimica che li crea. Se mai c’è stata un’industria insostenibile, l’agricoltura americana ne è l’esempio perfetto. Se dovessero cominciare a mancare i fertilizzanti prodotti dai combustibili fossili, tutto il Midwest americano si trasformerebbe in pochi anni in una distesa sterile di polvere grigia che le piogge spazzerebbero via in pochi anni. Da qui, il sistema di fast food americano, tutto basato sul mais a basso prezzo. I cereali sono ovunque nell’alimentazione americana: sono il cibo per gli animali allevati, sono nella maggior parte degli alimenti. Il petrolio fa parte dei fertilizzanti che alimentano le piante, dei pesticidi che allontanano gli insetti da queste, del carburante usato dai mezzi di trasporto per la distribuzione degli alimenti all’interno degli U.S.A., dei packaging nei quali i prodotti finali vengono avvolti. Siamo dipendenti dal petrolio e ci piace anche molto mangiarlo. Pollan sostiene che per ogni bushel di cereali proveniente da coltivazione industriale sia stato usato l’equivalente di un terzo di gallone di petrolio.

Si pensa di mangiare “bene”, ma si continuano a scoprire “elementi” che non si pensavano potessero far parte degli alimenti che mangiamo.

Abbiamo perso il contatto con i biologici cicli della natura, secondo i quali bestiame e raccolti sono connessi da mutevoli catene alimentari. Nella seconda parte del libro, Pollan propone l’alternativa all’agricoltura industriale: l’agricoltura biologica. Meno intensa e approfondita della prima parte, questa sezione si propone di narrare e descrivere una possibile via d’uscita da un’agricoltura che ha sempre meno elementi in comune con la Natura. Il giornalista ha trascorso una settimana in un’azienda di prodotti biologici: Joel Salatin’s Polyface Farm. Salatin si definisce un coltivatore di erba, nonostante la sua azienda allevi mucche, polli, uova e cereali. Ma ogni cosa nasce e si alimenta grazie all’erba. Le mucche si cibano di erba e i loro escrementi saranno il fertilizzante per coltivare, ancora, erba. Il ciclo non ha ostacoli e non si interrompe. E’ come se “il biologico” risvegliasse quella semplice “simmetria” che appartiene soltanto alla Natura. Joel Salatin è un agricoltore alternativo. I suoi prodotti vengono venduti a consumatori locali, i quali possono facilmente raggiungere la sua tenuta. Vende faccia a faccia. È importante per l’agricoltore poter vedere coloro che si ciberanno dei suoi prodotti, per un unico motivo: evitare che gli alimenti facciano percorsi troppo lunghi, si deteriorino e non mantengano ciò di cui sono intrisi, la tipicità locale. Salatin sembra aver trovato il segreto di un’agricoltura “biologico-naturale” sostenibile.

Per Pollan il dilemma degli onnivori è doppio: cosa scegliamo di mangiare (“what should we have for dinner?” è la frase di apertura del libro) e come permettiamo che questo venga prodotto. Il libro è un manifesto per i cultori del cibo, un’inchiesta su ciò che è il presente dell’industria alimentare - agricoltura americana e su ciò che potrebbe essere, e con ogni probabilità sarà, il futuro di questa. Il libro vuole essere, da parte dell’autore, uno specchio di ciò che scegliamo sia il nostro stile di vita, il cibo come nostro motore fisico-mentale, sottolineando le possibili, reali, alternative ad un naturale ma mai così umano disfacimento della Natura.



[1] “An animal that will feed on any kind or many different kinds of food, includine both plants and animals” da Pollan M., The Omnivore’s Dilemma, a natural history of four meals, The Penguin Press, New York 2006.

[2] “When you can eat just about anything nature has to offer, deciding what you should eat will inevitably stir anxiety” da Pollan M., The Omnivore’s Dilemma, a natural history of four meals, The Penguin Press, New York 2006.

[3] Misura di capacità per cereali: circa 35,24 litri negli Stati Uniti d’America.


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